Il rabbino Neusner e quel Gesù “troppo divino” per un ebreo

È morto Jacob Neusner, il “rabbino che dialogava con Gesù”, che papa Benedetto XVI ha ampiamente citato nel primo volume del suo monumentale Gesù di Nazaret.

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Così Ettore Gotti Tedeschi vive l’arrivo dell’enciclica del Papa sull’ambiente

L’ex presidente dell’Istituto Opere Religiose teme un “ambientalismo elevato a religione universale, che svilisce la fede e l’antropologia cristiana”.

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Divorziati risposati, nessuno arruoli papa Benedetto

Nella pubblicazione del volume sulle sue opere, papa Benedetto XVI cambia le conclusioni di un suo articolo del 1972 eliminando l’apertura alla comunione per i divorziati risposati. Una risposta al cardinale Kasper ma anche a chi vuol dimostrare che su questo tema Benedetto XVI era d’accordo con Kasper e soci.

di Riccardo Cascioli

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Sinodo: Müller > la censura

MARCO TOSATTI

71bc3a8d-f2b1-3349-abc5-766aa7c814afIl Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Gerhard Müller, si è espresso contro la censura imposta agli interventi dei partecipanti al Sinodo. Secondo quanto riporta l’AP, il porporato tedesco ha detto a una delle televisioni cattoliche presenti in alcuni momenti dei lavori che “Tutti i cristiani hanno il diritto di essere informati sugli interventi dei loro vescovi”.

Attualmente invece l’informazione sul Sinodo è fornita dal Direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi, coadiuvato da un sacerdote anglofono e da uno ispanofono. Nel briefing si offre un panorama generico della giornata, indicando i temi, ma non gli interventi in maniera citabile, né chi è autore degli interventi. Ed è un peccato, perché certamente ci sono stati interventi che meriterebbero di essere conosciuti più in dettaglio.

Così, per esempio, un vescovo ha criticato duramente la proposta del card. Kasper di dare l’eucaristia ai divorziati risposati, affermando che si tratta di “Un rimedio peggiore della malattia”.

Mentre un altro ha osservato che la pastorale per i divorziati deve ricordare che si tratta di già sposati, e che ci sono stati Papi anche prima del 2014, e che non si può dire che non fossero misericordiosi.

Un altro ha osservato che oltre a dire sempre misericordia dobbiamo evangelizzare di più; ci si riferisce spesso alla formazione, ma la si disattende per paura di non essere capiti. Al che il card. Kasper ha ripetuto che sì, lui ha preso l’iniziativa, ma che prima aveva chiesto al Papa.

© La Stampa (10/10/2014)

Grandi manovre per il Sinodo. Anche il CorSera vuole “guidare” il Papa

S’infiamma il dibattito intorno al tema più discusso del prossimo Sinodo sulla Famiglia: la comunione ai divorziati risposati. L’apertura del cardinale Kasper contestata in un libro scritto da cinque cardinali, poi dalla rivista teologica “Communio” e dal cardinale Pell. Sull’altro fronte l’episcopato tedesco fa quadrato attorno al cardinale Kasper. E in Italia si inserisce il “Corriere della Sera” che, con un commento di Alberto Melloni, arruola il Papa tra i progressisti e accusa i cardinali fedeli alla dottrina della Chiesa, di compiere manovre per boicottare papa Francesco.

Vescovi tedeschi fanno quadrato intorno a Kasper

di Matteo Matzuzzi

Il Sinodo straordinario sulla famiglia si avvicina, e il dibattito è aperto. Il Papa ha fatto sapere da tempo che vuole un dibattito franco e libero, confermando tale linea nella scelta di nominare tra i padri sinodali porporati con visioni antitetiche sulla pastorale familiare. A tenere banco è ancora la lunga relazione “di taglio teologico” esposta in concistoro dal cardinale Walter Kasper, lo scorso inverno. Più di due ore impiegate per porre interrogativi sul modo di rispondere alle domande sempre più pressanti che parte dei fedeli cattolici – specie quelli centro e nordeuropei, come è stato acclarato dall’Instrumentum laboris – pongono alla Chiesa. Al centro di tutto, la possibilità di riaccostare all’eucaristia i divorziati risposati. È questo l’elemento che divide più di ogni altro.

Kasper s’appella alla misericordia per salvare chi è vittima di un fallimento, di un naufragio cui il Signore risponde “non offrendo una seconda nave, ma una zattera, un salvagente, il sacramento della penitenza”. E poi, sostiene il teologo tedesco formatosi all’Università di Tubinga, bisogna tenere presente la storia della Chiesa dei primi secoli – più disponibile nei confronti dei “naufraghi” – e soprattutto la prassi da tempo attiva nella Chiesa ortodossa, che ammette nuove nozze benedette dopo un periodo di penitenza.

Tesi che cinque porporati, tre professori e un arcivescovo (non uno qualunque, ma il gesuita Cyril Vasil, segretario della Congregazione per le chiese orientali) smontano pezzo per pezzo nel libro Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica (Cantagalli). I testi, in larga parte già noti, sono firmati dai cardinali Carlo Caffarra, Velasio De Paolis, Walter Brandmüller, Raymond Leo Burke e – soprattutto – da Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Nell’introduzione all’edizione italiana, il curatore padre Robert Dodaro, preside dell’Istituto patristico Augustinianum di Roma, scrive che «gli autori di questo volume sono uniti nel sostenere fermamente che il Nuovo Testamento ci mostra Cristo che proibisce senza ambiguità divorzio e successive nuove nozze sulla base del piano originale di Dio sul matrimonio disposto da Dio nella Genesi». E questo nonostante Kasper avesse richiamato più volte l’esempio della Chiesa antica, più permissiva sul divorzio.

Una posizione, quella contenuta nel libro, che trova appoggi anche oltreoceano, soprattutto nell’America settentrionale. Il vaticanista del Boston Globe, John Allen, sul Foglio, faceva notare che tra le eminenze canadesi e statunitensi “c’è un’opposizione abbastanza netta a ogni cambio delle norme correnti”, benché nel complesso del corpo episcopale le posizioni siano più variegate. Il cardinale Timothy Dolan, parlando del riaccostamento dei divorziati risposati alla comunione, ha di recente spiegato di non comprendere “come potrebbe esserci un cambiamento drammatico senza andare contro l’insegnamento della Chiesa”. Sulla stessa linea anche il cardinale Thomas Collins, arcivescovo di Toronto, e Sean O’Malley, che lo scorso febbraio chiariva di non vedere “alcuna giustificazione teologica per cambiare l’atteggiamento della Chiesa” su questo argomento, anche perché “la Chiesa non può cambiare le sue posizioni a seconda dei tempi”.

41.2_C1_web-01Inoltre, l’ultimo numero di Communio, la rivista fondata da Urs von Balthasar, Henri de Lubac e Joseph Ratzinger, è interamente dedicato al tema del matrimonio. Anche in questo caso, i saggi sono firmati da personalità di assoluto rilievo, tra cui i cardinali Angelo Scola e Marc Ouellet. Quest’ultimo, già nell’incipit del suo scritto, sottolinea che “le nuove aperture per un approccio pastorale basato sulla misericordia devono concretizzarsi nella continuità della tradizione dottrinale della Chiesa, che è essa stessa un’espressione della divina misericordia”.

L’arcivescovo di Milano ricorda che “la dimensione nuziale propria di ogni forma d’amore è il punto di partenza per indirizzare cambiamenti pastorali che abbiano a che fare con il matrimonio e la famiglia”. Ultimo a rendere noto il suo punto di vista riguardo la questione più controversa del Sinodo è stato il cardinale George Pell, colui che Francesco ha chiamato a Roma per affidargli la delicata segreteria per l’Economia. Il porporato australiano ha fatto sapere che “non si può mantenere l’indissolubilità del matrimonio consentendo ai divorziati risposati di ricevere la Comunione”.

Sul fronte opposto, però, le repliche non mancano. Se il cardinale Walter Kasper ha ribadito ancora pochi giorni fa la sua posizione aperturista, a dargli man forte è arrivata una delegazione di vescovi tedeschi guidata I vescovi tedeschi annunciada mons. Franz-Josef Bode, pastore di Osnabrück, giunta a Roma il mese scorso per far sapere al cardinale Müller che la maggioranza dei presuli di Germania la pensa come Kasper. A rivelare i dettagli dell’incontro, svoltosi comunque “in una buona atmosfera”, è stato il cardinale Reinhard Marx, capo della conferenza episcopale tedesca. Marx, che già all’indomani del concistoro dello scorso inverno aveva auspicato che la discussione sulle materie oggetto del Sinodo fosse aperta anche al contributo di teologi e laici, ha fatto sapere che a ottobre porterà a Roma, in Assemblea, un documento dell’episcopato da lui presieduto a sostegno dell’orientamento esposto dal presidente emerito del Pontificio consiglio per la Promozione dell’Unità dei cristiani. In calce, ha aggiunto l’arcivescovo di Monaco e Frisinga, saranno ben visibili tutte le firme degli aderenti.

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Melloni arruola il Papa come leader dei progressisti

di Stefano Fontana

La lettura dell’articolo di Alberto Melloni pubblicato ieri sul Corriere della Sera (clicca qui) è molto istruttiva. Il tema era la pubblicazione del libro “dei cinque cardinali”, come ormai viene chiamato anche se gli autori sono più di cinque e non sono solo cardinali: “Permanere nella verità di Cristo”. Si tratta di una presa di posizione argomentata dei fautori della linea contraria al cambiamento della dottrina e della prassi della Chiesa riguardo ai divorziati risposati. In poche parole di coloro che non sono d’accordo con la proposta Kasper. Il tema del libro è il matrimonio così come lo ha voluto Gesù Cristo e siccome Gesù Cristo lo ha voluto come sacramento il tema del libro è anche la sacramentalità dei sacramenti. Cosa non da poco.

Ma perché l’articolo di Melloni su questo libro è istruttivo? Lo si capirà da alcuni suoi passaggi che sono particolarmente critici.

Il libro in questione farebbe parte “di una manovra: mandare il Papa in minoranza al Sinodo e trattare così da posizione di forza le molte e decisive nomine in agenda”. Questa lettura non rende onore al valore dei cardinali in questione e degli altri autori del libro, che non possono essere ascritti a manovratori di bassa lega. Ma non rende nemmeno onore al Papa, che viene concepito come una delle parti in campo. Oppure come colui che alla fine dovrà tirare le somme e fare da moderatore.

Ed in effetti, Melloni, nel suo articolo, accusando la controparte di voler manovrare il Papa, finisce per manovrarlo lui, appiattendolo a se stesso e alle proprie posizioni. È di grande interesse il paragone con Paolo VI. I cinque cardinali farebbero parte di un’ala conservatrice espressione della “affettuosa ostilità che circonda Santa Marta”, così come accadde ai tempi di Paolo VI. Anche allora c’era chi faceva nascere nel Papa una serie di “sospetti logoranti perché fermasse quei passi del Concilio che, pur nella loro timidezza, indicavano la via della collegialità e della comunione”.

Il paragone con Paolo VI è sorprendente. Alberto Melloni e la sua scuola sostengono che Paolo VI ha di fatto tradito il Concilio, bloccandone lo spirito che, secondo loro, era invece nelle attese di Giovanni XXIII. Per loro Paolo VI ha effettivamente “fermato quei passi”. Ed infatti, come si sa, il principio della collegialità fu precisato da Paolo VI e sottomesso al primato di Pietro mediante la Nota Explicativa Praevia alla Lumen Gentium. Questa Nota rappresenta per Melloni e la sua scuola un atto contrario allo spirito del Concilio. Fa sorridere, quindi, questa rivalutazione di Paolo VI dopo avergliene dette tante. Fa sorridere il suo ingaggio tra i progressisti dopo averlo tanto accusato di conservatorismo e mentalità retriva, anche perché il paragone con Papa Francesco colloca pure quest’ultimo in una fazione della Chiesa, quella, appunto, progressista.

RTC-PSe Papa Francesco ha auspicato il dibattito più largo possibile in vista del Sinodo, perché il libro “dei cinque cardinali” viene considerato da Melloni non un contributo al dibattito come richiesto dal Papa ma un attacco verso di lui? Perché non un aiuto al Papa, nello stile della collegialità, ma un atto di “affettuosa ostilità”? Si può sostenere questa valutazione solo collocando il Papa tra i contendenti, rendendolo il capo di una delle forze in campo. Un capo che, sostiene Melloni, è stato anche tanto ingenuo da dimenticare di essere capo fazione e di nominare i sinodali in modo equilibrato riservando la metà dei posti “ai suoi avversari”.

Il fatto si spiega osservando che, per Alberto Melloni, Papa Francesco sta dalla sua parte, dalla parte di Melloni, dico. E la parte di Melloni – lo si sa almeno da quando pubblicò il libro “Il Vangelo basta” – sostiene che tutto deve essere valutato alla luce del Vangelo. Ma perché, allora, criticare il libro “dei cinque cardinali” i quali propongono proprio di “Permanere nella verità di Cristo” ossia nel Vangelo? E perché vedere questo loro apporto come un desiderio di porre il Papa sotto tutela “come se su questo Papa Francesco avesse bisogno di sorveglianti”? Contro Benedetto XVI Melloni diceva appunto della centralità del Vangelo ma non si era mai posto il problema di porre Papa Benedetto sotto tutela.

Si capisce allora perché la lettura di questo articolo è interessante. La parte che fa capo a Melloni intende il prossimo Sinodo come aveva inteso il Concilio: come una occasione per compiere dei passi in avanti nella revisione della dottrina. Questa, però, si può cambiare cambiandola direttamente oppure indirettamente cambiando la pastorale. Siccome nessuno osa dire che bisogna cambiare la dottrina, si preferisce battere la seconda via.

Ed è qui che interviene il libro “dei cinque cardinali”, il quale non si limita a ribadire la dottrina – questo lo aveva fatto anche il cardinale Kasper – ma dice di no ad ogni tentativo di cambiare la dottrina tramite l’invenzione di nuovi atteggiamenti pastorali. Non solo no a cambiamenti dottrinali ma anche no a nuove prassi. Quello che la parte di Melloni ha fatto con Giovanni XXIII lo vuol ripetere con Papa Francesco. I cinque cardinali permettendo.

© LA NUOVA BUSSOLA QUOTIDIANA (18 settembre 2014)

Cento anni fa, il 3 settembre 1914, l’elezione di Giacomo della Chiesa. Capì per primo come tutto stava cambiando

di Gianpaolo Romanato

Se il conclave del 1903 era stato carico di tensione a causa del veto austriaco, quello del 1914 fu addirittura convulso per via di un evento ben più drammatico: la guerra. I cardinali entrarono infatti in clausura il 31 agosto, esattamente un mese dopo l’inizio del conflitto. Si trattava di eleggere il nuovo Papa mentre su tutti i fronti d’Europa scorrevano già fiumi di sangue. E i cardinali elettori venivano proprio dai Paesi coinvolti: sei erano francesi, quattro austro-ungarici, due inglesi, uno belga, uno olandese. Gli unici estranei al conflitto, che avrebbero potuto portare una parola più pacata — tre nordamericani — rimasero fuori dal conclave perché arrivarono a Roma quando il Papa era già fatto. Il clima che si respirava in Vaticano è ben esemplificato da Ernesto Vercesi nelle sue memorie: «Non parliamo di guerra», avrebbe detto conciliante il cardinale Hartmann, tedesco di Colonia; «Non parliamo di pace», gli avrebbe risposto gelido il cardinale Mercier, belga di Malines.

I grandi elettori furono 57 su 65 aventi diritto. Otto risultarono assenti, o per la distanza o per le condizioni di salute. L’ago della bilancia, ancora una volta, furono i 31 porporati italiani, che non raggiungevano però la maggioranza. L’Italia si era dichiarata neutrale e quindi l’elezione di un italiano parve la meno compromettente, ma diversi nomi (Domenico Ferrata e Antonio Agliardi, soprattutto) dovettero essere scartati per il servizio diplomatico precedentemente prestato nelle capitali ora in guerra. Potevano avere maturato simpatie, contratto debiti, annodato legami. La rosa così si restrinse e nella piccola scialuppa dei nomi superstiti (il benedettino Domenico Serafini, il cardinale Vicario Basilio Pompilj, il pisano Pietro Maffi) emerse la candidatura dell’arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo della Chiesa. Aveva sessant’anni, una lunga esperienza diplomatica (ma maturata in Spagna, lontano dai luoghi ora in guerra) e un’altrettanto robusta esperienza in Curia. Da sette anni era a Bologna, ciò che ne aveva completato il curriculum, arricchendolo con un solido respiro pastorale.

Non era notoriamente un beniamino di Pio X, che l’aveva promosso al cardinalato quasi in extremis, nell’ultimo dei suoi concistori, due mesi prima di morire, sembra per le insistenze di Merry del Val. Ma il distacco dall’ambiente del Pontefice defunto giocò a suo favore. C’era infatti da sopire il clima antimodernista che aveva tormentato gli ultimi anni del Papa trevigiano. Vescovi e cardinali chiedevano che nella Chiesa il vento della repressione si placasse, che certi personaggi fossero ridimensionati. E l’arcivescovo di Bologna parve la persona adatta. Non aveva compromissioni con i modernisti, ma dopo l’assunzione della cattedra bolognese si era sempre tenuto alla larga dalla Roma di Pio X. E poi veniva dalla più collaudata scuola diplomatica pontificia, quella di Mariano Rampolla del Tindaro (il grande sconfitto del conclave del 1903), di cui era stato il più fidato collaboratore sia durante la nunziatura in Spagna sia negli anni della sua Segreteria di Stato. Una garanzia, per chi doveva condurre la Santa Sede nel ciclone della guerra.

pandoaoqeavFu così che il 3 settembre del 1914, al decimo scrutinio e dopo tre giorni di conclave, Giacomo della Chiesa divenne Papa, sembra con 38 voti, esattamente il quorum necessario per l’elezione, ciò che rese necessario, pare, il riconteggio dei voti e il controllo scrupoloso del suo voto. In base alle severissime norme sul conclave emanate da Pio X, se l’eletto avesse votato per sé (le schede erano riconoscibili) l’elezione sarebbe stata nulla. I cardinali nordamericani che arrivarono allora a Roma appresero così che, senza il loro apporto, la Chiesa aveva un nuovo Papa e si chiamava Benedetto XV. Un nome che non compariva da più di centocinquant’anni e che era appartenuto, nella prima metà del XVIII secolo, all’unico grande Papa del Settecento, Prospero Lambertini, anch’egli assurto alla cattedra petrina dall’arcivescovado bolognese.

Piccolo di statura, con lineamenti del volto irregolari e un colorito perennemente pallido, Benedetto XV non aveva né il tratto umano del predecessore né il phisique du rôle di colui che sarà il suo successore. Ma aveva lo spessore intellettuale, la padronanza dei problemi e la capacità di governo che occorrevano in quel momento. Il suo pontificato durò poco, solo otto anni, ma furono anni assolutamente decisivi per il mondo e il cattolicesimo. La guerra, gli iniqui trattati di pace (nonostante i quali «restano i germi di antichi rancori», come scrisse nell’enciclica Pacem Dei munus del 23 maggio 1920); la dissoluzione di un ordine internazionale centrato sull’Europa e la nascita di un mondo nuovo tutto da costruire, la scomparsa di quattro Imperi (tedesco, austro-ungarico, russo, ottomano); la rivoluzione bolscevica; la comparsa di nuovi Stati e l’esplosione di una miriade di incontenibili nuovi nazionalismi; il germe, allora imprevisto, di quella che oggi è la drammatica questione medio-orientale; l’inizio delle stragi di massa, di cui rimase vittima la popolazione armena, che renderà necessario coniare la parola genocidio, fino ad allora sconosciuta a tutti i vocabolari.

Fu questo lo sfondo tragico e grandioso del pontificato di Benedetto, che dovette operare essendo ancora irrisolta la “Questione romana”, con pochi mezzi, di fronte alla diffidenza di tutti, ed essendo escluso, a causa del veto italiano, dalla Conferenza di Parigi. L’unica certezza su cui poteva contare era la Chiesa, moralmente purificata dall’operato del suo predecessore, rinsaldata attorno al vincolo di fede, finalmente libera da asservimenti politici e da tentazioni nazionalistiche, unificata attorno a un’unica legge dal Codex iuris canonici, che l’avrebbe proposta come la prima vera entità globale del Novecento. Benedetto raccolse insomma la migliore eredità di Pio X, e si mosse nel solco che questi aveva aperto.

Su queste basi appoggiò le iniziative che hanno reso duratura la sua azione: la capillare opera umanitaria a favore di prigionieri e dispersi (Francesco Saverio Nitti ritrovò suo figlio, prigioniero in Austria, grazie all’intervento vaticano); la celebre Nota del 1° agosto 1917 con l’inciso sull’«inutile strage» e le proposte per una pace fondata sulla giustizia e il diritto; il profondo rinnovamento del metodo missionario, che avviò la fondazione di quelle che oggi sono le giovani Chiese nei Paesi ex coloniali; il recupero all’obbedienza romana della cattolicità dell’Est europeo, dopo la dissoluzione dell’Austria-Ungheria e la fine del sistema delle Chiese di Stato (grazie anche all’operato di Achille Ratti, nunzio a Varsavia, che poi gli succederà); l’abrogazione del non expedit, che in Italia liberò i cattolici e pose definitivamente fine al clericalismo antinazionale, sollevando il laicato dalla responsabilità di dover gestire la “Questione romana”.

Dalla fragile cittadella vaticana, tenuta sotto controllo da tutte le parti in lotta, egli colse perfettamente l’epocale cambiamento che stava avvenendo e lo descrisse con queste parole in una lettera confidenziale all’imperatore d’Austria, scritta solo un mese prima della conclusione del conflitto, alla fine di settembre del 1918: «Nella presente situazione internazionale chi decide della pace e della guerra non è né l’Italia, né l’Inghilterra, né la Francia, ma unicamente il Presidente della grande Repubblica americana; egli solo può imporre come la conclusione della pace, così la continuazione della guerra; ed egli solo vuol dettare la pace nel tempo che gli resta della sua ultima presidenza». Era finita l’Europa e stava iniziando l’impero americano.

Nella galleria dei Papi novecenteschi Benedetto XV è rimasto finora in ombra. Ma, pur mancando ancora una sintesi storiografica adeguata alla sua importanza, la centralità del suo pontificato è ormai un dato acquisito.

L’eredità sconosciuta
Tra i vari anniversari della grande guerra l’elezione di Papa Benedetto XV, il 3 settembre 1914, rischia di essere uno dei meno citati. Papa Benedetto è uno dei meno noti fra i Pontefici che hanno guidato la Chiesa nell’ultimo secolo; non a caso lo storico John Francis Pollard ha intitolato la sua biografia The Unknown Pope, il Papa sconosciuto e in un certo senso questo sembra essere giustificato dai fatti, scrive Francis Xavier Rocca sul «Catholic News Service» dello scorso 29 agosto: il suo pontificato durato sette anni e mezzo fu relativamente breve e singolarmente avaro di successi, almeno secondo la mentalità del mondo.

In realtà Papa Benedetto XV lasciò una solida eredità alla Chiesa, consolidandone il ruolo di interlocutore imparziale in tema di guerra e di pace. Il cardinale Giacomo della Chiesa, arcivescovo di Bologna, venne eletto Papa meno di sei settimane dopo lo scoppio della prima guerra mondiale e subito iniziò una campagna contro il conflitto in corso. I suoi sforzi giunsero al loro apice nella Nota ai capi dei popoli belligeranti del 1° agosto 1917, in cui li invitava a deporre le armi e ad affidare a un arbitrato internazionale le questioni all’origine del conflitto. Sforzi che non sortirono effetti positivi, anche a causa della debolezza della diplomazia vaticana dell’epoca. «Nel 1914 — scrive Pollard nel suo libro — il Vaticano aveva relazioni diplomatiche solo con due grandi potenze, l’Austria-Ungheria e l’impero russo. E con quest’ultimo i rapporti non erano affatto buoni». Il presidente degli Stati Uniti d’America, Woodrow Wilson, che fece entrare la sua nazione in guerra nel 1917, era stato molto evasivo nel recepire gli appelli del Papa. Quando la guerra finì, nel novembre del 1918, il Vaticano non fu invitato alla conferenza di pace di Parigi. Profeticamente, Papa Benedetto XV criticò il trattamento punitivo imposto alla Germania, che poi avrebbe preparato il terreno all’ascesa di Adolf Hitler. «Quando — scrive Pollard — Giacomo della Chiesa morì, nel 1922, il Vaticano aveva relazioni diplomatiche con quasi tutte le grandi potenze, compresa la Germania, tranne gli Stati Uniti d’America e la Russia». Il Pontefice aveva lasciato in eredità una rete diplomatica tanto preziosa quanto poco appariscente.

© L’Osservatore Romano, 2 settembre 2014.