I partigiani di Stalin, l’altro 25 aprile

La Resistenza fu ambigua fin da subito, sin da prima del 1945. Dietro alla lotta antifascista si celavano due forme di Resistenza. Una delle due, dopo la guerra, si preparava a prendere il potere e a instaurare una dittatura comunista alleata con l’URSS. Intervista al giornalista e storico Dario Fertilio sull’altro 25 aprile.

di Stefano Magni (25-04-2018)

“La Resistenza fu ambigua fin da subito, sin da prima del 1945. Dietro alla lotta antifascista si celavano due forme di Resistenza. Quella comunista che si caratterizza per tre aspetti: pratica del terrorismo, la presenza di commissari politici e la prospettiva postbellica di una rivoluzione quale continuazione immediata della vittoria della Resistenza. Questi tre elementi erano presenti solo nelle Brigate Garibaldi comuniste e assenti in tutte le altre formazioni che hanno combattuto al fianco degli Alleati”. Dario Fertilio, penna storica delle pagine culturali del Corriere della Sera, esordisce così quando ci spiega il volto oscuro del 25 aprile, quello che nessuno potrebbe festeggiare e su cui si è steso un silenzioso imbarazzo: una parte della Resistenza non cedette le armi e si preparò a combattere una seconda guerra di continuazione, per la presa del potere, al fianco dell’URSS. In parte la combatté negli anni convulsi del dopoguerra, ma ripose l’ascia di guerra poco dopo le prime elezioni nazionali del 18 aprile 1948, più che per convinzione, per motivi di meri rapporti di forza, quando l’Italia scelse la Dc e con essa anche l’appartenenza al blocco occidentale.

Dario Fertilio fondatore del movimento culturale Libertates, assieme al dissidente russo Vladimir Bukovskij e allo storico francese Stéphane Courtois, ha organizzato ogni anno Memento Gulag, evento internazionale per riscoprire la memoria sul comunismo e i suoi crimini. Da quell’evento sono passati tutti gli storici che hanno scavato nei profondi archivi del Cremlino, a partire dallo stesso Vladimir Bukovskij, e degli altri paesi dell’ex Patto di Varsavia. Molto di quel che si è scoperto riguarda, ovviamente, anche la nostra storia nazionale. Così apprendiamo che i partigiani rossi stessero realmente preparando la guerra civile per la presa del potere. E non erano soli: c’erano i sovietici dietro ai loro piani. “Una parte delle forze partigiane, quelle formate dai combattenti delle Brigate Garibaldi, costituisce un Nucleo di Azione Clandestino, nascondendo le armi che erano state loro affidate, in parte anche dagli Alleati. Vennero stanziati finanziamenti dall’URSS, oltre a istruzioni dirette attraverso l’ambasciatore sovietico a Roma, Michail Kostijlev, il quale aveva un filo diretto con Togliatti e la dirigenza politica. L’altra componente del Partito, affidata a Pietro Secchia, era il braccio militare. Questi paramilitari non attendevano solo un’ipotetica ‘ora X’ per entrare in azione, ma erano sottoposti a periodici addestramenti, in Jugoslavia e in Cecoslovacchia. Ancora negli anni 80 si parlava di Karlovy Vary, in Cecoslovacchia, in cui si addestravano i ‘rivoluzionari’. L’URSS, dunque, forniva un coordinamento politico, uno militare e uno finanziario. Quanto al numero dei membri del Nucleo di Azione Clandestino, la maggior parte degli storici stima che fossero da un minimo di 80mila a un massimo di 130mila. Altri storici parlano addirittura di 200mila persone pronte a entrare in azione”.

Togliatti con i partigiani comunisti.

Un esercito clandestino, insomma, di grandi dimensioni. Come mai, però, non entrò in azione anche quando aveva la possibilità militare di farlo? “La questione sul quando e sul come dovesse entrare in azione – spiega Fertilio – dipendeva dall’URSS. A Mosca, Stalin sapeva che la via dell’insurrezione armata non fosse praticabile: avrebbe dato spunto agli Alleati per intervenire militarmente. E avrebbe indebolito la posizione internazionale dell’Unione Sovietica, che, almeno in linea di principio, rimaneva fedele alla spartizione dell’Europa decisa a Jalta. In relazione alle elezioni del 1948, i comunisti si pongono la domanda: se dovessimo vincere e gli altri partiti non accettassero la nostra vittoria, cosa fare? A quel punto c’è l’ormai famoso colloquio di Togliatti con l’ambasciatore Kostijlev per ricevere istruzioni. Kostijlev prese un giorno intero di tempo per consultarsi con il Cremlino, poi rispose che, in caso di attacco alle sedi del PCI, sarebbe dovuto scattare il piano militare. Solo in questo caso. Quattro mesi dopo ci fu l’attentato a Togliatti e il piano scattò prontamente. Iniziò l’azione militare, con l’occupazione di tutte le aree chiave, recupero delle armi nascoste e blocco delle comunicazioni. Togliatti, istruito dall’Unione Sovietica, fermò i comunisti perché le condizioni erano impossibili. Ma il piano di azione c’era e già lo si stava applicando sul serio”.

Sfiorammo la guerra civile. Nel 1948 si esaurì la fase della preparazione di una rivoluzione, ma iniziò quella dell’attesa di una possibile invasione dell’Unione Sovietica, poi del Patto di Varsavia. “In quel caso – spiega Fertilio – l’armata clandestina, poi giornalisticamente definita ‘Gladio rossa’ avrebbe assunto il ruolo di quinta colonna dietro le linee italiane, in appoggio all’avanzata delle divisioni del Patto di Varsavia. Il piano operativo di quest’ultimo, come riveleranno le carte della Commissione Mitrokhin, consisteva nell’occupazione dell’Italia settentrionale, con truppe provenienti dall’Ungheria. L’avanzata avrebbe dovuta arrestarsi all’altezza della vecchia Linea Gotica, lungo l’Appennino Tosco-Emiliano, per fermare a quell’altezza ogni possibile controffensiva italiana e della Nato. Di fatto si sarebbe ricreata una nuova Linea Gotica alla rovescia”. Quanto si sapeva di tutti questi preparativi? “Gli occidentali erano molto ben informati. Da parte della Nato si preparava una guerriglia anti-comunista con l’operazione Stay Behind, da parte comunista e sovietica c’era un piano di sovversione vera e propria, promossa e finanziata da Mosca. Poi c’era un elemento di ambiguità: Francesco Cossiga sostenne, durante un memento Gulag, a Firenze, che i finanziamenti sovietici, che avvenivano in dollari, fossero tutto sommato positivi, perché ci permettevano di importare valuta pregiata. Bukovskij, presente a quell’evento, commentò questa uscita ironica di Cossiga in modo così duro che creò imbarazzo generale in sala”.

Cosa stessero preparando per noi i sovietici e gli ex partigiani comunisti, è materia delicata e ancora in parte avvolta nel mistero. Non è da escludere, come sostiene una parte della ex Commissione Mitrokhin, che fossero già pronte le liste di proscrizione delle persone da arrestare, i luoghi destinati a ospitare i nuovi campi di concentramento. Come avvenne in tutti gli altri paesi che vennero occupati dall’Armata Rossa, d’altra parte. “Nei documenti, però, c’è tutto e il contrario di tutto. Sia il materiale emerso dal Cremlino, che quello della Commissione Mitrokhin, venne discusso e contestato. Tanto è vero che, al termine dei lavori della Commissione, si arrivò a una relazione di maggioranza e una di minoranza. Nella relazione più colpevolista si parla di documenti in cui si identificavano le persone da liquidare o da arrestare, i luoghi dove si sarebbero potuti costituire i campi di concentramento. E’ più di una ipotesi, è una ragionevole conclusione che si può trarre incrociando i documenti sovietici, quelli degli altri Paesi del blocco sovietico e quelli italiani. L’addestramento dell’ala militare del PCI non era solo in preparazione alla difesa delle sedi del partito, c’erano anche sabotaggio, guerriglia, trasmissione dei dati e tutto quel che serviva in una campagna militare per prendere il potere. E’ più che ragionevole che, nel piano, ci fosse anche la liquidazione dell’opposizione politica interna”.

(fonte: lanuovabq.it)


I Giusti del 25 aprile. Un libro per ricordarli

Le morti misteriose dei comandanti partigiani cattolici, negli ultimi giorni di guerra. E’ l’altro volto eroico della Resistenza, cancellato dalla storia, per far spazio alle sole formazioni comuniste. Ora la loro scomparsa misteriosa è narrata nell’ultimo libro dello storico Luciano Garibaldi, I giusti del 25 aprile. Chi uccise i partigiani eroi?

di Marco Respinti (25-04-2018)

Il 25 Aprile è un falso mito. Fino agli anni 1960, quando in Italia iniziò la stagione dei governi di centro-sinistra, era poco e nulla, una non-data. In particolare fino al 1968, anno fatidico. Fino ad allora l’Italia era ancora fertile del limo lasciato dall’onda lunga del 18 aprile 1948, quando il comunismo era stato cacciato indietro e il nostro Paese salvato dall’orbita sovietica soprattutto e anzitutto grazie all’impegno indefesso dei cattolici, fedeli e gerarchia. Poi il vento è cambiato e l’Italia del Centro-sinistra incipiente ha avuto bisogno di un natale laico, fissato per convenzione in quel giorno che era una cosa (la data di un evento bellico e “locale”) ed è stata stravolta in un’altra (la bandiera della Sinistra soprattutto extraparlamentare, anzi la conventio ad excludendum con cui essa bollava i non comunisti come “fascisti” qualsiasi cosa in realtà pensassero).

Diverso discorso è invece la Resistenza. Italiani con la schiena diritta si levarono per non lasciare il Paese esclusivamente alle macerie umane e civili della guerra, reagendo all’occupazione tedesca e cercando di scrollarsi di dosso quel che restava del regime fascista. Ma la Resistenza non è affatto quell’altro falso mito che la riduzione della storia d’Italia al 25 Aprile – il “venticinqueaprilismo” – pretende di farci metabolizzare. Quando andò bene, fu una testimonianza soprattutto morale. L’Italia la liberarono infatti le forze alleate (e a Sud c’erano i soldati del re). Quando andò male, la Resistenza fu invece un eccidio turpe, rimasto per lo più impunito. Questa Resistenza seconda è quella dei comunisti, proni all’Unione Sovietica che, pur forse minoranza ma organizzatissima, cercarono di sabotare il Paese allora e dopo di far credere a tutti che esistevano solo loro. Fu il lato oscuro della Resistenza che troppo a lungo si è cercato di occultare e che, dopo la svolta strategica di Palmiro Togliatti incamminato, d’accordo con Stalin, nella lunga marcia dentro le istituzioni italiane, nutrì un’anima combattentista e insurrezionalista che porta diritto diritto alle Brigate Rosse. La pista l’ha aperta il sociologo Rocco Turi con Gladio rossa. Una catena di complotti e delitti, dal dopoguerra al caso Moro (Marsilio, Padova 2004) e Storia segreta del PCI. Dai partigiani al caso Moro (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2013), ma le indagini sembrano arenate lì.

L’altra Resistenza, invece, la prima, quella andata bene, quella moralmente integra e intransigente, fu quella delle formazioni non comuniste, tante, in specie quelle cattoliche, monarchiche e liberali. Spesso questi combattenti non comunisti sono stati abbattuti dai partigiani comunisti, che quindi preferirono il nemico a loro. Quando non furono ammazzati, quei patrioti rei solo di non obbedire a Mosca vennero ostracizzati, cancellati dalla memoria, epurati. Eppure la loro è un’epopea. Un pezzo significativo di essa la racconta Luciano Garibaldi, storico e giornalista di pregio, nel volume I giusti del 25 aprile. Chi uccise i partigiani eroi?, un volume che si avvale della collaborazione di Riccardo Caniato, Luigi Confalonieri e Alessandro Rivali raccoglitori di significative testimonianze dirette, riportato in edizione ora dalla milanese Ares dopo essere uscito originariamente nel 2005 con premessa dell’ex assessore alla Cultura della Regione Lombardia Ettore A. Albertoni, introduzione del direttore dell’Ares Cesare Cavalleri e postfazione del giornalista e saggista di storia militare Mirko Molteni.

Il libro è un’inchiesta sulle morti enigmatiche di tre di quei partigiani rei solo di non essere comunisti: il famoso Aldo Gastaldi, nome di battaglia “Bisagno”, genovese, sottotenente del genio poi comandante della Divisione Cichero che combatté fascisti italiani e nazisti tedeschi sull’Appennino ligure-emiliano, cattolico e apartitico; il comandante valdostano dei carabinieri Edoardo Alessi, soprannominato “Marcello”, protagonista della Resistenza in Val d’Intelvi, nel comasco, cattolico e monarchico; e Ugo Ricci, detto “Il capitano”, capitano degli autieri e poi comandante della Prima Divisione Alpina Valtellina, cattolico e monarchico. Tutti e tre sono morti in circostanze davvero mai chiarite. “Bisagno” cadde dal tetto della cabina dall’autocarro Fiat su cui viaggiava finendo schiacciato dalle ruote vicino a Desenzano del Garda il 21 maggio 1945. “Marcello” cadde il 26 aprile 1945, ufficialmente ucciso con fucili e pugnali da 300 militi delle Brigate Nere che avevano circondato la casa dove si trovava sulle alture di Sondrio. 300 fascisti armati fino ai denti e schierati a puntino il giorno dopo la Liberazione?… E “Il capitano” fu ucciso ancora prima, la notte del 3 ottobre 1944, quando a Lenno (Como) cercò di arrestare il ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana Guido Bufarini Guidi mentre qualcuno gridava «tradimento» in quella che si era trasformata in una mattanza; era come se i fascisti aspettassero Ricci e i suoi.

Erano tre graduati del Regio Esercito, tre eroi, tre cattolici animati da fede profondissima, tre patrioti che non si erano omologati allo strapotere comunista. Il loro impegno militare e civile fu tutto contraddistinto da segni di semplicità, carità, abnegazione e da gesti religiosi, profondi, autentici, popolari: le consacrazioni delle armi nei santuari, la Comunione quotidiana con la truppa, la preghiera. Furono il fiore dell’Italia in un momento di oscurità. Morirono troppo presto e che all’Italia siano mancati non bisogna essere luminari per capirlo.

Scrive, con felice sintesi, Cavalleri nell’introduzione: «Se l’ispirazione cattolica, che contraddistinse l’operato dei tre Eroi di questo libro, non fosse stata soffocata da forze ostili e preponderanti, forze ispirate a un dichiarato ateismo, di certo il “sangue dei vinti” non sarebbe stato sparso con la spettrale ampiezza che ormai tutti conosciamo. Di certo i comandanti partigiani cattolici e monarchici avrebbero frenato e bloccato le spinte vendicative più feroci e più bestiali». La memoria di quei tre veri italiani va celebrata ogni 25 aprile e ogni giorno dell’anno. Affinché l’Italia migliore non resti solamente un ricordo vago.

(fonte: lanuovabq.it)

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