Le virtù cardinali: la prudenza

Delle quattro virtù cardinali, la prudenza è la virtù regina, perché permette a un’azione di essere perfetta, raggiungendo un fine buono, con mezzi buoni. I vizi opposti alla prudenza: imprudenza, negligenza, falsa prudenza.

di Luisella Scrosati (26-05-2024)

Oggi concludiamo il breve percorso sulle virtù cardinali. Ricordo che quando parliamo di virtù cardinali intendiamo un duplice aspetto, cioè la virtù acquisita – dunque, il versante umano, naturale della virtù – ma anche la virtù infusa, cioè un dono soprannaturale che ci viene dato con l’infusione della carità e che serve all’uomo per poter vivere le virtù all’altezza della sua chiamata, all’altezza della dimensione della fede e della vita soprannaturale.

Oggi vediamo l’ultima delle virtù cardinali, la prima nell’ordine classico: la prudenza. La prudenza viene classicamente definita come recta ratio agibilium. Cosa vuol dire? Si intende la retta ragione non tanto delle cose che si fanno (perché sennò potremmo entrare nel campo delle discipline produttive), quanto invece delle azioni umane. In pratica la prudenza è la virtù regina. Perché? Perché è quella che permette a un’azione umana di essere perfetta, di una perfezione sempre relativa, ma perfetta in quanto atto proprio dell’uomo e in quanto atto proprio del cristiano. Il che è come dire che tutte le altre virtù hanno bisogno in qualche modo della prudenza. Supponiamo, un atto di temperanza: perché sia veramente un atto virtuoso, richiede l’intervento della prudenza: quindi, un atto veramente temperante è anche un atto prudente. Un atto di coraggio, relativo alla fortezza, è sempre anche un atto prudente. Cioè un atto non prudente, un atto imprudente non è mai un atto virtuoso, questo è l’altro lato della medaglia di quello che stiamo affermando.

Ma perché la prudenza è la regina delle virtù? E perché in fondo nessun atto può essere ritenuto virtuoso senza la prudenza? Appunto perché la prudenza è questa recta ratio agibilium. Che cosa significa questa espressione? Quando noi pensiamo a un’azione umana, percepiamo subito che un’azione umana non è la stessa cosa della conoscenza di princìpi. Cioè, i princìpi hanno due caratteristiche: anzitutto, io posso anche scrivere un libro su un principio e non attuarlo mai, dunque facendo mancare la dimensione attuativa. E proprio perché manca questa dimensione attuativa, mancano quegli elementi che rendono singolare ogni azione dell’uomo. Che cosa significa? Molto semplicemente, ogni azione dell’uomo è sempre declinata in una concretezza che è pressoché irripetibile, perché c’è un tempo, c’è un luogo, ci sono delle circostanze, delle qualità e capacità di una persona, ci sono diversi fattori che entrano in gioco.

In questa complessità, il principio generale non riesce a entrare: non che non abbia nulla a che vedere con l’azione, ma comprendiamo che la circostanza precisa nella quale mi viene chiesto di agire ha sempre tante variabili che non sono prevedibili in senso astratto, evidentemente. E dunque la prudenza è quella virtù che mi permette di trovare, nella situazione concreta e unica nella quale sono chiamato ad agire, i mezzi per raggiungere il fine buono della mia azione, gli strumenti per raggiungere il fine buono, la strada che mi porta alla meta buona.

Che cosa si comprende già qui? Che la prudenza è sempre legata al fine, ma non si esaurisce nel porre il fine, perché essa si rivolge principalmente ai mezzi, alla via, agli strumenti, alle modalità per raggiungere quel fine. L’uomo è prudente, dunque, quando evidentemente pone un fine buono e quando è capace di scegliere e di attuare, di porre realmente in atto quei mezzi adeguati a raggiungere questo fine. Quindi, ci sono due versanti che vanno sempre tenuti insieme. Perché? Perché io potrei avere dei fini non buoni e prendere dei mezzi ottimi per raggiungere un fine non buono. E questa è la “prudenza” che potremmo chiamare una “prudenza mondana”, una “prudenza della carne”, cioè quella “prudenza” che non guarda alla bontà del fine, ma semplicemente a trovare quei mezzi per raggiungere un fine che di per sé può anche essere cattivo. Questa è una corruzione della prudenza, non è vera prudenza. La prudenza del mondo, potremmo dire, è una falsa prudenza perché, pur arrivando esattamente dove vuole arrivare – c’è una grande abilità, astuzia nel far girare le cose per raggiungere uno scopo –, persegue uno scopo negativo, lo scopo è sbagliato, non è buono.

Oppure, l’altro difetto della prudenza qual è? Pur intendendo un fine buono, nella situazione concreta i mezzi scelti o non sono adeguati o, peggio ancora, sono mezzi cattivi. E dunque anche in questo caso non abbiamo un’azione prudente.

C’è un altro aspetto importante: la prudenza non si ferma sul lato della riflessione, su quali sono in una precisa circostanza i mezzi adeguati per raggiungere il fine, ma implica anche una determinazione, cioè un passaggio all’atto. Se rimane solo a un punto di vista teorico-riflessivo, la prudenza, come virtù, resta incompiuta, resta monca, perché in realtà la prudenza ha a che fare precisamente con l’azione e con l’imperativo di agire. Io posso avere una fase riflessiva, un fine buono, dei mezzi perfetti, ma non li attuo: la mia “azione” in questo caso è un’omissione, non è prudente evidentemente.

Fatto questo quadro generale, vediamo tre considerazioni che a mio avviso aiutano a inquadrare meglio questa regina delle virtù.

  1. La prudenza non crea il bene, non crea il vero, ma li riconosce, li recepisce. Cioè, una prudenza che mi porta a sovvertire la legge divina, la legge morale, la legge naturale è per sé stessa una falsa prudenza. Ripeto, la prudenza non crea il bene. Attenzione, perché c’è un’espressione importantissima e vera che, se intesa male, diventa fuorviante, cioè: la prudenza è la norma prossima di un’azione. È assolutamente vero, perché l’azione è determinata, dettata precisamente dall’atto prudente. E tuttavia, questo è il punto chiave, una norma prossima non è una norma remota, il che è un modo per dire quello che ho comunicato in precedenza: non è la prudenza che crea il bene, il fine buono. Il fine buono è il presupposto, in quanto buono. E dunque la prudenza ha sullo sfondo, per così dire, un atteggiamento recettivo, riconosce. E poiché riconosce, pone in atto delle azioni adeguate a portarmi a quel fine nella circostanza concreta in cui devo porle in atto.
  2. La prudenza non coincide con la coscienza: sono un po’ parenti, chiaramente, non sono del tutto estranei, però che differenza c’è? Intanto, dobbiamo intendere la coscienza in termini classici. Invece, la coscienza intesa in senso moderno è quasi un rovesciamento della virtù della prudenza, perché la coscienza in senso moderno è in qualche modo creatrice del valore di qualcosa, mentre invece la coscienza e la prudenza nel senso classico sono recettive; la coscienza fa risuonare la voce del bene e del vero, non la produce . Ma anche dal punto di vista della concezione classica, la coscienza si ferma sull’aspetto riflessivo; invece abbiamo visto che la prudenza si compie precisamente nel governare un’azione, dunque nell’agire concreto.
  3. La prudenza coincide con la bontà di un’azione. L’uomo prudente è l’uomo buono. Non c’è differenza. Ripeto: la prudenza coincide con la bontà, un atto prudente è un atto buono. E così l’uomo prudente, l’uomo che ha acquisito la virtù della prudenza è l’uomo buono. Perché? Di nuovo, lo si può comprendere mettendo in fila le considerazioni che abbiamo fatto fino adesso. Se la prudenza è ciò che porta a perfezione un’azione, se la prudenza è ciò che abbraccia il fine buono e i mezzi buoni per raggiungere quel fine e li pone in atto, comprendete che un’azione così caratterizzata è un’azione buona, e un uomo che così agisce è un uomo buono. Dunque, prudenza e bontà coincidono.

Diventa importante recuperare la virtù della prudenza, che è indispensabile. È impossibile la vita buona nell’uomo – nella sua dimensione naturale e in quella soprannaturale – senza questa virtù. Non è una virtù accessoria, qualcosa che uno può avere e l’altro può non avere; è chiaro che più una persona è chiamata a gestire non solo i propri atti, ma ad avere anche un’autorità su altri, sulla famiglia, sulla comunità sociale, eccetera, maggiormente ha bisogno di una prudenza che abbracci queste dimensioni. Ma si comprende che l’uomo in quanto uomo, anche l’uomo che vive da solo in un’isola deserta, in quanto tale, in quanto deve agire, in quanto persona che agisce, o è prudente o i suoi atti non sono perfetti e dunque non sono buoni, sotto uno degli aspetti che abbiamo visto, dal punto di vista del fine, dal punto di vista dei mezzi o di entrambe le cose.

Questa sovrapposizione tra la prudenza e la bontà è dunque un punto importante.

La nostra modalità conoscitiva ci permette spesso di cogliere maggiormente una verità vedendola in chiaroscuro. E dunque proviamo a vedere “lo scuro” – dopo aver visto il chiaro – per far emergere meglio il chiaro. Che cosa è “lo scuro”? Sono i vizi opposti alla prudenza. È molto importante perché, come accennavamo all’inizio, c’è una concezione della prudenza veramente deviata, falsata, per cui in qualche modo l’uomo prudente viene associato all’uomo furbo, all’uomo astuto, all’uomo che scansa sempre il pericolo, le situazioni difficili: questa è proprio la caricatura peggiore che si possa fare di questa virtù.

Vediamo come san Tommaso presenta le tre grandi categorie dei vizi opposti alla prudenza, cioè: l’imprudenza, la negligenza e la falsa prudenza. Se la prudenza indica la rettitudine dell’azione, dell’azione buona, l’imprudenza, come dice la parola, indica l’allontanamento dalla rettitudine dell’azione. La prudenza abbraccia tre aspetti, cioè: il consiglio, il giudizio e l’azione. E l’imprudenza può colpire questi tre aspetti, il perché è intuitivo.

Il consiglio è la fase di raccolta di input e può essere il consiglio concreto di una persona, il consiglio che viene dalla memoria di un’esperienza compiuta, il consiglio che viene da altre persone magari non viventi, dagli studi, dalle letture, insomma tutto questo bagaglio che fa parte della fase del consiglio per cercare i mezzi giusti.

Il giudizio è l’esprimere appunto un retto giudizio alla luce dei consigli. E poi c’è l’azione stessa.

Qual è il difetto sul lato del consiglio? Chiaramente è la precipitazione, cioè la persona che agisce per impulso, agisce spinta dalle passioni. E le passioni più violente sono quelle che riguardano la sfera del concupiscibile.

Tutte le virtù si legano fra di loro. Noi distinguiamo perché è il modo umano di conoscere e poi di trasmettere la conoscenza, ma in realtà le virtù sono legate e c’è un unico atto della persona. Dunque, capite che la temperanza entra fortemente a sostegno della prudenza. Perché, se non c’è la temperanza, la persona agisce per esempio sotto l’impulso della lussuria o della gola o anche dell’avarizia. Infatti, per san Tommaso le due grandi passioni deleterie che in qualche modo impediscono l’azione prudente, e quindi l’azione buona, sono la lussuria e l’avarizia, i due vizi che erodono la prudenza.

La precipitazione è proprio questo agire su impulso della passione, agire non per aver fatto un’adeguata fase di consiglio, di consultazione, ma perché si è spinti da altro. è chiaro che nella fase del consiglio entrano in modo importante le leggi. Se andate a rivedere la lezione relativa alla legge, vedete come diventa importantissima la funzione della legge in questa fase del consiglio, per cui ci può essere, in una persona impulsiva, la temerarietà di disprezzare la legge. Quando parlo di legge, non intendo qualsiasi legge: vi rimando all’approfondimento.

Oppure, sull’atto del giudizio, che cosa può succedere? Si può avere l’inconsiderazione. Che cos’è l’inconsiderazione? Si trascurano aspetti, situazioni necessari per arrivare a un retto giudizio, cioè si tralascia quello che si poteva fare per arrivare a un retto giudizio. Dunque, l’inconsiderazione indica che non si è preso in considerazione ciò che si doveva. È chiaro che non si tratta di prendere in considerazione tutto lo scibile umano, però la persona è tenuta a valutare tutti gli aspetti che entrano in un’azione, almeno tutti gli aspetti che si comprende possano entrare in una certa azione. Qui c’è una dimensione molto delicata, dove molto spesso quelli che noi chiamiamo “peccati di ignoranza” sono in realtà inconsiderazioni, cioè quando una persona non ha tenuto in considerazione, ha tralasciato quello che poteva e doveva fare per avere un giudizio più chiaro. Lo ha fatto con una certa colpevolezza, con una certa malizia, una trascuratezza colpevole.

Il terzo lato è quello dell’azione. Il vizio che erode l’azione della prudenza è l’incostanza. L’incostanza è il difetto non del consiglio, non del giudizio, ma dell’atto. Dunque, io mi ritrovo a dare un comando non sufficientemente determinato, un comando flebile, che non ha una tenuta, e così la persona facilmente recede, indietreggia dall’atto prudente. È un difetto quindi dell’azione.

Questo per quanto riguarda l’imprudenza.

Poi abbiamo la negligenza. La negligenza è un difetto della prontezza della volontà. Ricordate quello che dicevo all’inizio e poi ho ripetuto: la prudenza non termina con il giudizio, frutto del consiglio e della riflessione: termina nell’atto. Ora, la persona negligente è la persona che non ha la prontezza della volontà, è la persona che in qualche modo lascia che le situazioni accadano e non si determina all’atto prudente. È un po’ diverso dall’incostanza. L’incostanza indica un comando debole, che fa recedere. Qui abbiamo invece una mancanza della prontezza dell’atto, cioè una persona non è prudente per il fatto che non comanda l’atto, ma lascia in qualche modo passare le situazioni. È interessante, perché anche non decidere può essere un atto moralmente cattivo, non determinarsi a qualcosa rende un atto imperfetto o addirittura colpevole, a seconda delle situazioni.

Poi abbiamo l’ultima categoria, che è quella della falsa prudenza. Dunque, abbiamo visto l’imprudenza con le sue tre determinazioni: la precipitazione, che riguarda la fase del consiglio; l’inconsiderazione, che riguarda la fase del giudizio; l’incostanza, che riguarda l’azione vera e propria. Poi abbiamo visto la negligenza.

E ora vediamo il gruppo della falsa prudenza, cioè quelle forme di “prudenza” che assomigliano alla prudenza, ma sono in realtà la sua contraffazione, la sua perversione. La prima di tutte è quella che viene chiamata prudenza della carne o prudenza del mondo. In sostanza, viene sbagliato, viene mancato il fine. Il fine ultimo verso cui la persona si muove, nella sua deliberazione, nella sua azione, è un fine sbagliato, disordinato. Cioè, i beni della carne, i beni del mondo sono considerati e diventano il fine di un atto che va in una direzione che non è la direzione del bene. C’è un disordine, questi fini vengono assolutizzati. Dunque, qui abbiamo la prudenza della carne, la prudenza del mondo, che è molto diffusa. Quando Nostro Signore dice: «i figli di questo mondo (…) sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8), che cosa sta denunciando? Sta denunciando la falsa prudenza, la prudenza della carne, la prudenza del mondo, cioè un gran lavorio nella riflessione, nel giudizio, nell’azione, ma per dei fini sbagliati, disordinati.

Poi abbiamo un’altra contraffazione molto diffusa che è l’astuzia. Che cosa fa l’astuzia? A differenza della prudenza del mondo, l’astuzia mi può dare un fine buono, un fine ordinato. Ma ciò che non è ordinato, ciò che non è buono, ciò che non corrisponde al vero sono le vie scelte, i mezzi scelti: puoi avere un fine buono ma mezzi cattivi, da cui il famoso “il fine giustifica i mezzi”. Dunque, si ricorre all’astuzia in pratica in che modo? Con la frode, l’inganno, la simulazione, cioè tutti mezzi non buoni, con l’idea che si debba raggiungere un fine buono. Ora, anche questa, per san Tommaso, è chiaramente una falsa prudenza. La prudenza della carne lo è quanto ai fini, l’astuzia quanto ai mezzi scelti, che sono appunto mezzi non buoni, ingannevoli.

Terza e ultima categoria della falsa prudenza è la sollecitudine per le cose temporali, che può somigliare alla prudenza della carne, ma ha una sfumatura diversa. In pratica, esse non diventano propriamente, come nel caso della prudenza della carne, il fine ultimo della vita: permane una proporzione e l’ordine tra fine ultimo e fine intermedio. Tuttavia, dedichiamo a questi fini, alle cose temporali in sostanza, talmente tanto impegno, talmente tanto tempo, talmente tanta enfasi, da metterli in primo piano. È in pratica, sottolinea san Tommaso, la mancanza di fiducia nella divina Provvidenza, cioè l’eccessivo affannarsi per le cose di quaggiù, anche se non c’è ancora un’inversione del fine. Tuttavia, c’è questo affanno e c’è questo eccessivo timore di perderle queste cose.

Dunque, qui abbiamo una forma di falsa prudenza: non siamo mai abbastanza sicuri di avere custodito il nostro tesoro temporale, che può essere di beni materiali, di beni intellettuali; siamo sempre in apprensione per il timore di perderli. E quindi ogni volta perdiamo tempo, forza, risorse per essere ancora più sicuri di averli al sicuro: questa è la logica che sta dietro a questo tipo di falsa prudenza. Pensiamo per esempio alla sollecitudine per il futuro, che non significa non essere previdenti, ma è un eccesso della previdenza. Cioè, la previdenza è: “faccio quello che devo oggi per dispormi per quanto posso il domani”. Qui invece è proprio andare oltre a quello che debbo fare, al mio dovere e, quindi, non avere fiducia nella Provvidenza divina, in Dio stesso che guida la vita, la storia. Questa è una forma di falsa prudenza.

Abbiamo concluso il nostro breve percorso sulle virtù. Abbiamo visto, tempo fa, le tre virtù teologali. Poi abbiamo trattato le virtù cardinali. La prossima volta invece inizieremo a parlare della grazia, che è il terzo elemento, il più importante, in questo ritorno dell’uomo a Dio. Abbiamo visto i primi due elementi: il ruolo della legge e le virtù. E la prossima volta vedremo la grazia.

(Fonte: La Nuova BQ)

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