Le virtù cardinali: la fortezza

La fortezza modera la sfera dell’irascibile: di fronte a un bene o un male arduo, ci permette di seguire l’ordine di ragione. Il rapporto con la paura. I due fronti della fortezza: l’attacco e, soprattutto, la resistenza. Pazienza e perseveranza.

di Luisella Scrosati (12-05-2024)

Proseguiamo le nostre catechesi sulle virtù cardinali. La scorsa volta abbiamo parlato della temperanza. Questa volta parliamo della fortezza. Sono le due virtù cardinali che agiscono sull’appetito sensibile, cioè sulla sfera non razionale dell’uomo, sebbene chiaramente l’uomo è uno e quindi questa sfera è chiamata a essere integrata nella natura umana.

Su che cosa agisce la temperanza? Sul concupiscibile, sul desiderio, sull’attrazione verso i beni sensibili. La fortezza, invece, agisce sull’irascibile, che ha a che fare con tutti i movimenti delle nostre passioni che emergono quando abbiamo davanti – in prospettiva o presenti – un bene arduo da raggiungere (dunque, non un semplice bene sensibile, ma arduo), da cui l’audacia, la speranza, oppure la disperazione perché si pensa di non poterlo raggiungere, oppure un male arduo, cioè un grande male, che mette in moto il timore o la collera.

Questo campionario di reazioni del nostro appetito sensibile rientra appunto nell’irascibile. E la fortezza è quella virtù cardinale – una virtù importante attorno alla quale girano una serie di altre virtù più specifiche – che modera questa sfera dell’irascibile. Che cosa vuol dire che la modera? Vuol dire che ci permette, proprio perché è una virtù, di seguire l’ordine di ragione, di fare entrare questi moti all’interno dell’ordine di ragione senza cedere alla paura, all’avventatezza, a questo campionario di reazioni passionali di cui abbiamo detto. Dunque, la fortezza ci permette di non cedere quando siamo di fronte a delle difficoltà, quando il bene o il male che si presentano sono ardui.

Faccio un inciso. Quando parliamo di ordine di ragione parliamo sempre in sostanza della realtà, quell’ordine delle realtà che l’uomo coglie. E in questa realtà c’è anche la realtà soprannaturale, non solamente la realtà naturale. Ed ecco perché la fortezza, come la temperanza e come in generale le virtù cardinali e le altre virtù, è anche infusa con la carità. Dunque, la carità porta con sé il corteo delle virtù cardinali infuse proprio perché questo ordine di ragione s’intende come la ragione illuminata dalla fede, la ragione aperta anche su quella realtà che sorpassa le capacità naturali dell’uomo.

Rifatta questa precisazione, che è sempre importante tenere presente, vediamo un po’ più da vicino la fortezza. Cosa vuol dire che la fortezza modera l’irascibile? Potremmo dire che c’è un’unica grande passione fondamentale che nell’uomo è capace di fare la parte del leone: la paura. La paura subentra nella vita dell’uomo dopo il peccato originale. Ed è proprio la paura che può impedire all’uomo di compiere il bene, di mantenere la via del bene e può farlo cedere, farlo deviare verso le logiche del male.

Allora, la fortezza non è la virtù dell’eroe, nel senso che non ci fa avvertire la paura, che ci fa sprezzare la paura. Non è questo. In particolare, la paura atavica dell’uomo è la morte; ci sono tante paure connesse alla paura della morte: la paura di ammalarsi, la paura dell’instabilità economica che può mettere a repentaglio la vita, la paura della propria morte o della morte altrui, eccetera. Insomma, c’è tutto un campionario che conosciamo bene. Dunque, quando parliamo di fortezza, non si tratta di non avvertire la paura, ma di non permetterle di fermarci nella via del bene e non permetterle di farci deviare verso il male. La paura, il timore è quel difetto, quel vizio per difetto rispetto alla fortezza, che ci porta fuori dall’ordo rationis. Cioè, prevale questo timore e dunque noi non riusciamo più a vivere secondo l’ordine di ragione, ma in qualche modo lasciamo andare le cose, seguiamo delle situazioni o prendiamo delle strade che ci portano fuori da questo ordine, spinti dalla paura o paralizzati dalla paura, perché la paura è appunto qualche cosa che ci paralizza.

Dunque, la fortezza non è il non avvertire la paura e non è neanche, attenzione, l’incoscienza del pericolo. L’incoscienza del pericolo non ha nulla a che fare con la virtù della fortezza. Non è neanche la presunzione di poter contare sulle proprie forze: anche questo non fa parte della virtù della fortezza. Non è l’insensibilità al timore. Non sono dunque questi i contenuti della fortezza. Perché? Perché in realtà la paura può essere secondo ragione. Se io avverto la paura per qualcosa che oggettivamente è un male da cui devo stare lontano, allora la paura è un bene: avere paura alla vista di un serpente e perciò ritrarre la mano e tirarmi indietro non è un male in sé stesso. Certo, se questa paura del serpente mi dovesse impedire di uscire per strada per paura di incontrarlo è chiaro che diventerebbe una paura che domina la sfera razionale dell’uomo, anziché essere integrata all’interno della stessa sfera razionale.

Focalizziamo un po’ più da vicino la fortezza. San Tommaso ne parla nella II-II della Summa, alla quæstio 123. Non leggeremo le quæstiones dedicate da Tommaso alla fortezza e alle altre virtù annesse. Fondamentalmente san Tommaso ci dice che la fortezza agisce su due fronti: l’attacco e la resistenza.

Che cosa s’intende per attacco? Si basa sull’audacia. L’audacia chiama a suo sostegno la collera dell’uomo, l’ira, quindi quella parte dell’uomo capace di aggredire. L’ira non è un male in sé, perché san Tommaso ci dice che quando è diretta alla distruzione del male, ed è diretta in modo proporzionato alla distruzione del male, essa è una virtù.

Parlando di fortezza, l’attacco è inteso come l’audacia sostenuta dalla collera dell’uomo per distruggere il male arduo che si presenta all’uomo nella vita, nella sua vita personale, nella vita della società, nella vita spirituale. Dunque, questa audacia, questa forza non è un male, ma una risorsa che Dio ha dato alla natura dell’uomo e che Dio dà all’uomo come virtù infusa, come forza infusa. In questo senso, c’è una santa collera, quando appunto è una forza che viene usata all’interno dell’ordine della ragione per aggredire un male, attaccare un male che si fa presente nella vita dell’uomo.

Ma san Tommaso dice che la parte più importante della fortezza è l’altra, quella del resistere. Leggiamo dall’articolo 6 della quæstio 123: «L’atto principale della fortezza non è l’aggredire, ma il resistere, cioè il restare fermi nei pericoli» (II-II, q. 123, a. 6). Non vuol dire che l’aggredire non è parte della fortezza, ma non è l’atto principale. L’atto principale è questo restare fermi nei pericoli. San Tommaso, nella risposta alla prima obiezione di questo articolo, dà tre ragioni importantissime con le quali motiva perché l’atto principale della fortezza è questo resistere e non invece l’aggredire.

La prima è la seguente: «Perché il resistere si contrappone alla prepotenza di uno più forte, mentre chi aggredisce si mette in posizione di vantaggio e di forza» (ibidem). Detto in altro modo, ci vuole più fortezza nel resistere che nell’aggredire, perché nell’aggredire io in qualche modo mi pongo in posizione di forza, di vantaggio. Invece, nel resistere, se io sto resistendo a un male, a un pericolo, a una situazione difficile, vuol dire che c’è già qualcosa o qualcuno più forte che aggredisce me. Tommaso parla della «prepotenza di uno più forte»: io sono quindi in una posizione di svantaggio, di inferiorità. Ecco perché occorre una maggior dose di fortezza nel resistere piuttosto che nell’aggredire.

Seconda ragione: «Perché chi resiste sente già i pericoli come imminenti» (ibidem). Cioè, non è che chi attacca non ha il senso del pericolo: lo prospetta, lo ipotizza, in qualche modo lo vede come possibile e futuro. Ma chi invece è aggredito, e deve quindi resistere, non lo prospetta, lo sperimenta: il pericolo, il male è già lì, è già presente. E dunque questo richiede una forza maggiore.

Terza ragione: «Resistere implica una certa durata di tempo» (ibidem). Mentre l’aggredire è qualcosa di più repentino e di più limitato nel tempo, il resistere implica invece una situazione di durata. È una durata spesso lunga, che il più delle volte sembra non avere mai fine. Questa vita è una battaglia continua, quindi in fondo il resistere non ha fine in questa vita: ci sono periodi di maggiore o minore resistenza, ma di fatto c’è una durata, un’estensione che costituisce chiaramente un logorio e quindi questa fortezza deve giocare un ruolo più forte, in termini proprio di durata.

Il resistere, questa dimensione della fortezza, comporta un’attività forte, che non appare come nell’attacco. Nell’attacco, la fortezza è più evidente; nel resistere resta più nascosta, ma è ancora più indispensabile averla nel resistere che nell’attaccare. Ed è una forza che ci permette di raggiungere un obiettivo fondamentale, cioè di rimanere attaccati al bene anche quando tutto rema contro, anche quando sembra che non ci sia prospettiva di non cedere in qualche modo alle lusinghe del male, a non intraprendere la via più facile del male, quando sembra che in realtà il male abbia successo, sia più redditizio, più protetto, eccetera. Lì occorre una fermezza enorme, una fermezza d’animo, di convinzione, di forza morale, per non cedere, per non stendere le mani a nostra volta a compiere il male, l’ingiustizia. San Tommaso insiste sul fatto che il cuore della fortezza sia questo resistere, questa resistenza nel bene contro il male.

Tra le tante altre cose, san Tommaso poi ci parla delle parti della fortezza, cioè di quelle virtù connesse, distinte dalla fortezza, ma ad essa profondamente connesse. E ne parla sia nei confronti della fortezza intesa come attacco sia della fortezza intesa come resistenza. Mi occuperò di questo secondo gruppo; per completezza, per chi vuole approfondire, le virtù connesse alla fortezza intesa come attacco sono due: la magnanimità e la magnificenza.

Io invece mi occupo delle due virtù che riguardano la fortezza intesa come resistenza: la pazienza e la perseveranza. Che cosa aggiungono alla fortezza la pazienza e la perseveranza? Ricordiamo sempre che la virtù cardinale indica un cardine attorno al quale girano una serie di virtù sorelle, connesse, ognuna delle quali ha un aspetto, una sfaccettatura diversa. Allora vediamo cosa hanno di diverso la pazienza e la perseveranza rispetto alla fortezza.

Vediamo prima di tutto la pazienza. Abbiamo detto che la fortezza si rivolge principalmente alla paura, in particolare alla paura della morte. E dunque la fortezza va a moderare questa paura, affinché venga ricondotta all’interno dell’ordine di ragione, perché non sia un ostacolo a una vita virtuosa o un incentivo a compiere il male. Se la fortezza si rivolge principalmente alla paura, la pazienza si rivolge a un’altra passione fondamentale, che è la tristezza. La pazienza modera la tristezza. E cosa vuol dire moderare la tristezza? Vuol dire ricondurre la tristezza all’interno dell’ordine di ragione inteso come abbiamo detto all’inizio di questa lezione, per evitare qualcosa che purtroppo tutti sperimentiamo. Cioè, quando la tristezza invade l’animo, porta con sé lo scoraggiamento. In qualche modo la tristezza è un prosciugamento, un logorio delle forze. E quindi porta a uno scoraggiamento, che induce a fermarsi, qui non per la paura ma appunto per la tristezza. La tristezza, poi, porta con sé l’amarezza, perché “le cose non vanno mai nel verso giusto”, per mille ragioni, per quello che si vede… poi c’è anche la nostra fantasia, la nostra proiezione che aggiunge altri problemi. Ma ci sono anche cose concrete, reali.

La tristezza, quando non è moderata, porta con sé l’acredine, che rovina in qualche modo la vita della persona, i rapporti, le relazioni. E quindi possiamo dire che la pazienza è quella virtù sorella, quella virtù che è parte della fortezza, che ci permette di sopportare le difficoltà con animo sereno, lieto. La pazienza impedisce alla tristezza di rovinare, di distruggere, di minare questa serenità di fondo che l’uomo deve avere anche di fronte al male. Quel male che porta con sé non solo la paura ma anche la tristezza.

C’è una virtù sorella della pazienza, che san Tommaso chiama longanimità. Che cos’è la longanimità? Ha una sua particolarità all’interno della pazienza; e cioè la longanimità impedisce che la dilazione del bene sperato diventi causa di tristezza. Dunque, è parte della pazienza perché riguarda sempre la tristezza, ma aggiunge qualcosa in più: aggiunge la dilazione del bene, il bene sperato che non arriva mai, che non si riesce mai a stringere, a vedere veramente all’orizzonte, presente. Dunque, questa dilazione del bene può divenire causa di tristezza. La longanimità modera proprio questo tipo di tristezza, dovuto a questa dilazione del bene atteso, del bene sperato, del bene verso cui si tende.

Pazienza e longanimità, dunque, hanno a che fare, secondo le distinzioni che abbiamo fatto, con la tristezza. E rispondono a quelle difficoltà nel compiere il bene arduo, nel resistere al male arduo che vengono provocate dal presentarsi della tristezza.

Invece, la seconda parte della fortezza intesa come resistenza è la perseveranza. La perseveranza si rivolge non specificamente alla tristezza né alla paura, ma al fattore tempo. La parola stessa, “perseverare”, richiama come suo oggetto principale che cosa? La durata nel tempo. E che cosa dura nel tempo? Durano le difficoltà. La perseveranza è proprio quella virtù che ci permette la resistenza nel tempo rispetto alle difficoltà che si presentano in modo duraturo, in modo continuo, in modo prolungato. La perseveranza prolunga, per così dire, la virtù di sostenere quello sforzo prolungato dovuto al fatto che la difficoltà si mantiene per un tempo prolungato: una lunga malattia, una lunga situazione di instabilità economica, una lunga situazione di prova di ogni genere.

E la perseveranza combatte quella paura che entra quando la difficoltà si estende nel tempo. E qual è la paura specifica della durata, della prova? La paura di non farcela, la paura di crollare, di non farcela più. Da questo punto di vista, la perseveranza è essenziale, perché se l’uomo resiste al male ma non persevera, la sua resistenza è vana. Non è un caso che nel Santo Vangelo il Signore dica: «Chi persevererà fino alla fine sarà salvato» (Mt 10,22). Ricordate tutte le prove che il Signore snocciola davanti ai suoi discepoli e che essi incontreranno, le prove della fine dei tempi; non le nasconde, le mette tutte davanti. E conclude dicendo: «Chi persevererà fino alla fine sarà salvato». In questo senso la perseveranza è la virtù della salvezza.

Anche la perseveranza, come la pazienza, ha una sorella (la pazienza ha per sorella la longanimità, poi chiaramente sono virtù che si legano tutte tra di loro): la costanza. Noi le usiamo un po’ come sinonimi. San Tommaso invece introduce una piccola differenza. E dice che la costanza è quella persistenza nel bene contro le circostanze avverse, contro quelle circostanze che ci impediscono di compiere il bene, nel senso che la costanza permette di riprendersi ogni volta nella stessa direzione, la direzione di voler compiere il bene ed evitare il male. La costanza permette di riprendersi ogni volta che arrivano i colpi della vita. Si può trattare di cadute che si possono avere, di momenti di défaillance, da cui ripartire nuovamente: questa è la costanza. Ma possono presentarsi anche nuovi colpi. È un classico, quando i colpi si mettono tutti in fila, per cui uno, per esempio, ha avuto una prova economica e poi subentra una malattia; esce dalla malattia e ha un lutto; si riprende dal lutto e subisce un’ingiustizia e poi un’altra… questo perseverare significa riprendersi ogni volta, confermando ogni volta la stessa direzione nel bene. E questo è ciò che rientra nella virtù della costanza, che aggiunge alla virtù della perseveranza questa sfumatura particolare della ripresa.

Ci sarebbero tanti altri aspetti da presentare, ma per quel che serve a noi va bene così. Dunque, abbiamo visto la fortezza, questa virtù che ci aiuta a moderare la parte irascibile e in particolare a rintuzzare la paura, la paura della morte, perché l’uomo possa vivere secondo l’ordine di ragione. E abbiamo visto le parti della fortezza: due le abbiamo solo accennate, la magnificenza e la magnanimità, per la fortezza come attacco, come impresa; le altre, per la fortezza come resistenza, sono la pazienza e la perseveranza.

La prossima volta vedremo la terza virtù cardinale, la seconda nell’ordine classico (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza: noi siamo partiti dal fondo), cioè la giustizia.

(Fonte: La Nuova BQ)

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