Giovedì (giorno dei sacerdoti) è morto mons. Antonio Livi, buon maestro e vero profeta della Chiesa cattolica.
È morto monsignor Antonio Livi (1938-2020), teologo, docente, scrittore, da molti conosciuto per la sua «filosofia del senso comune». Fin dai primi numeri del Timone ha collaborato con la nostra rivista, ci piace ricordarlo pubblicando on line un suo articolo comparso sul Timone n.110 febbraio 2012. R.I.P.
Il cuore dell’apologetica seguendo Tommaso
di Mons. Antonio Livi
A Gesù che diceva di essere venuto «a rendere testimonianza alla verità», Ponzio Pilato rispose dicendo che non c’è alcuna verità. Noi oggi dobbiamo essere scettici come Pilato, oppure possiamo essere certi di qualcosa? E, soprattutto, possiamo riconoscere come vera la Parola di Dio?
A queste e altre domande risponde in modo illuminante la dottrina di san Tommaso sulla conoscenza, che svolge un originalissima e coerente speculazione filosofica al servizio della fede. San Tommaso, infatti, è un teologo (il più grande e autorevole teologo della Chiesa), ma la sua filosofia non perde per questo il suo carattere di autentica ricerca scientifica e razionale.
Le ragioni filosofiche che Tommaso espone a favore delle verità della fede cattolica servono alla fede e alla teologia proprio per il fatto che sono consistenti in se stesse, ossia colgono adeguatamente quegli aspetti della verità (sul mondo, sull’uomo, su Dio, sul bene/male, etc.) che l’uomo riesce a “vedere” con gli “occhi” della ragione naturale. (…)
Grazie alla sua opera teologica, basata sia sulla fede soprannaturale, sia nell’uso corretto della ragione naturale, Tommaso d’Aquino è stato riconosciuto dalla Chiesa come “doctor communis” (maestro universale di dottrina cattolica). Io penso che lo si potrebbe anche designare come “doctor veritatis” (maestro di verità), e questo per i due seguenti motivi.
Perché ha saputo definire in modo insuperabile cosa sia la percezione della verità da parte dell’uomo con la formula «adaequatio intellectus ad rem», adeguazione dell’intelletto alla cosa conosciuta, alla realtà: infatti, dire che «l’affermazione di Tizio è vera» significa dire quello che Tizio ha in mente è conforme alla realtà, ossia c’è perfetta corrispondenza tra ciò che egli pensa e dice una certa cosa e ciò che quella cosa effettivamente è. E Tommaso dimostra che ogni uomo può avere una ragionevole certezza almeno riguardo le cose della sua esperienza immediata e a quelle che può dedurre con il ragionamento. Lo scetticismo è dunque irragionevole: nello stesso momento in cui afferma che l’uomo non può conoscere nulla con la certezza, lo scettico sta affermando di aver conosciuto con certezza la reale situazione dell’uomo, quindi si contraddice.
Perché [Tommaso] ha chiarito in modo altrettanto insuperabile il rapporto tra la ragione naturale e la fede soprannaturale. Tommaso dice che la verità fondamentali della ragione umana sono denominate «preambula fidei» ossia condizioni di possibilità, ossia presupposti, perché l’uomo possa accettare i misteri soprannaturali rivelati (per esempio la Trinità e l’Incarnazione). La più importante di queste verità accessibili alla ragione senza bisogno della fede è la verità sull’esistenza di Dio, dato che nessuno può credere in un Dio Uno e Trino se previamente non è convinto dell’esistenza di Dio, e dato che nessuno può credere che Dio si è fatto Uomo e che ci ha rivelato i misteri della nostra salvezza se non è già previamente convinto (indipendentemente dalla rivelazione divina) che Dio esiste. (…)
Ma la verità sull’esistenza di Dio non è l’unico preambolo della fede accessibile alla ragione attraverso argomenti (questi argomenti sono le cosiddette «cinque vie» che qui non posso ovviamente riportare), ma ce ne sono altri: ci sono anche le verità riguardanti l’uomo stesso, la prima delle quali è che ogni uomo ha un futuro dopo la morte corporale, e durante questa vita è libero di scegliere tra il bene e il male, motivo per cui ognuno avverte la propria responsabilità per il male commesso, si riconosce cioè peccatore e incapace di redimersi da solo, incapace soprattutto di ottenere da solo la salvezza eterna. Questa verità è un preambolo della fede perché ci porta ad accogliere Cristo come Colui che può liberare veramente l’uomo dal peccato e aprirgli le porte della vita eterna.
Così, il teologo, riflettendo sulla fede cristiana, deve saper riconoscere che essa ha dei presupposti accessibili alla ragione naturale, perché altrimenti l’atto di fede sarebbe illogico, irrazionale, non umano: o meglio, sarebbe una semplice accettazione esteriore.
Questa dottrina tommasiana è sommamente utile per i credenti e addirittura indispensabile nel dialogo con i non credenti. Per i primi Tommaso ha scritto quel capolavoro che è la monumentale Summa theologiae; per i secondi ha scritto il Libro sulle verità della fede cattolica, che alcuni malamente intitolano Summa contra Gentiles, come se si trattasse di un libro polemico, mentre è solo il dialogo apostolico con chi ancora non crede al Vangelo però è in possesso di quelle verità naturali che sono appunto i «preambula fidei», ossia le premesse logiche per riconoscere la razionalità della fede cristiana. (…)
(Fonte: IlTimone)
A Dio Antonio Livi, diga teologica al modernismo nella Chiesa
di Stefano Fontana (03-04-2020)
Una cattiva filosofia produce una cattiva teologia e questa porta la Chiesa fuori strada. Non aveva dubbi, monsignor Antonio Livi, che ci ha lasciati ieri a 82 anni a Roma per aspettarci nella Gloria di Dio quando questo passaggio toccherà anche a noi, che la Chiesa stia andando fuori strada. Ed aveva impegnato tutta la sua vita di filosofo e di teologo per spiegare e difendere la recta ratio, la verità naturale, la filosofia spontanea dello spirito umano, senza della quale non è possibile la recta fides, la fede non solo come atto soggettivo (fides qua) ma anche come conoscenza delle verità rivelate salvifiche (fides quae).
La dislocazione attuale dall’oggetto al soggetto, dai contenuti alla prassi, dalla dottrina alla pastorale tipica delle età in decadenza, come scriveva Josef Pieper (“Tutte le epoche in procinto di dissolversi sono soggettive, mentre tutte le epoche che guardano in avanti hanno una direzione oggettiva”), connota anche questa nostra età della decadenza e riguarda anche la Chiesa. La teologia cattolica, insegnava Antonio Livi, sta perdendo il riferimento ad un sistema naturale di pensiero senza il quale essa si riduce a generica letteratura religiosa, a vaga esortazione parenetica, ad assimilazione mimetica e compiaciuta del linguaggio del mondo, ma non serve più il dogma.
Senza la struttura di verità del proprio pensiero – egli usava l’espressione “epistemologia aletica” – la fede cristiana cessa di essere un autentico sapere, non si comunica a tutti gli uomini, non presenta i dogmi sempre nello stesso senso, non li difende dalle eresie.
Sulla scia del suo maestro Étienne Gilson, Antonio Livi è stato un grande tomista vissuto in un’epoca in cui la teologia cattolica ha messo il realismo metafisico completamente da parte. Per questo la sua vita è stata una “lotta” teoretica e pratica – “sapesse quante ne ho passate!”, mi aveva detto -, una lotta fino all’ultimo momento, una lotta che egli lascia in eredità: “Ho pochi momenti lucidi nell’agonia, ma so che altri continueranno dopo di me”.
Proprio come Gilson, Livi ha denunciato tutti i tentativi moderni, necessariamente confluenti nel modernismo, di negare il realismo filosofico, sapendo che se si concede al pensiero moderno anche una sola briciola di vantaggio all’inizio, la partita prima o dopo sarà perduta. La stessa battaglia che Gilson aveva intrapreso fieramente contro la scuola di Lovanio negli anni Trenta del secolo scorso, Livi l’ha affrontata contro i neomodernisti del nostro tempo, denunciando il razionalismo di origine protestante dilagante ormai nella teologia cattolica e che animava la protestantizzazione del cattolicesimo ormai sotto gli occhi di tutti.
La sua “filosofia del senso comune” eliminava ogni concessione al dubbio cartesiano e al criticismo kantiano, impediva sul nascere qualsiasi accordo tra il realismo metafisico e i principi della filosofia moderna, liquidava come inconsistente e dannosa la teologia ufficialmente professata in moltissimi centri accademici cattolici comprese le università pontificie, fronteggiava apertamente i più acclamati maestri del pensiero cattolico attualmente in voga, tanto inconsistenti quanto vezzeggiati dal nuovo establishment ecclesiastico.
Come aveva fatto Réginald Garrigou-Lagrange negli anni quaranta del secolo scorso, Antonio Livi si era chiesto dove stesse andando la nouvelle théologie e la sua diagnosi confermava quella del grande domenicano: essa conduce alla tesi che una teologia non attuale è falsa e che la teologia vera per essere vera deve essere attuale. È così che ha pensato Rahner e che pensa Kasper, per i quali l’essere è tempo e il tempo è essere, la teologia nasce dall’esistenza che è sempre mutevole e così anche essa cambia.
Una teologia immutabilmente vera oggi è ritenuta cosa impossibile anche ai vertici della Chiesa, ma non da Antonio Livi. Nel suo libro forse più famoso, Vera e falsa teologia, egli presentò un elenco di teologi, poi più volte aggiornato, che stravolgevano la teologia cattolica e che ciò nonostante erano insigniti al merito da parte dell’autorità ecclesiastica. Nei suoi ultimi editoriali della rivista Fides Catholica, di cui aveva preso la direzione dopo le note vicende accadute ai Francescani dell’Immacolata, aveva denunciato la logica hegeliana penetrata nello stesso magistero, come conseguenza matura della nuova teologia modernista: un certo insegnamento dottrinale o morale è vero, ma poi i tempi cambiano e quindi bisogna riconsiderarlo.
Antonio Livi va paragonato, come già osservato, a Garrigou-Lagrange, a Étienne Gilson, a Cornelio Fabro, ai grandi filosofi e teologi della Scuola Romana la cui ricchezza è stata rifiutata e dimenticata e nessuno sa dire perché. Rifiutata perché non più attuale, ma rifiutare una verità perché non più attuale significa rifiutarla senza un perché. Certamente è triste che i Grandi siano rifiutati senza un perché. Del resto, però, ciò evidenzia la loro grandezza rispetto alla quale nessun perché è sufficiente per rifiutarli.
(Fonte: LaNuovaBQ)